lunedì 21 marzo 2011

More, una discreta colonna sonora

I Pink Floyd a inizio carriera dovevano sbancare il lunario nei locali dell'underground di Londra, su palchi arrabattati, con una strumentazione pessima, quindi accettarono di buon grado un lavoro particolare per una band del loro genere: una colonna sonora, cosa che faranno successivamente anche con Zabrinskie Point.
Gilmour racconta il perchè di quell'album, un pezzo della storia dei giovani e immaturi Floyd (anche se già sublimi). A seguito anche la spiegazione dei brani dell'album. Enjoy it!
Il regista Barbet Schroeder ci diede seicento sterline a testa, aggiungendo che tutta la musica prodotta sarebbe rimasta di nostra proprietà, così trottammo di buon grado in studio, facendo tutto il lavoro in otto giorni”. Il chitarrista David Gilmour lo riassume così, l’ingaggio dei rampanti e ancora squattrinati Pink Floyd per la colonna sonora di “More”, alternativo e veristico melodramma sulla droga, loro terzo album e, dal punto di vista del lungometraggio, opera di debutto per l’ex-allievo di Jean Luc Godard.
Sull’argomento droghe il gruppo s’era fatto in quegli anni decisamente un nome, grazie soprattutto al loro ex-leader il povero Syd Barrett, un fattone di grandissimo talento, a quel punto però fuori formazione da oltre un anno, cacciato via per manifesta inaffidabilità. In realtà i tre suoi ex-compagni, più il nuovo arrivato Gilmour, erano piuttosto e semplicemente dei discreti ubriaconi, con l’aggiunta di qualche canna ogni tanto, ma l’alea delle kermesse psichedeliche, dei concerti pieni di suoni e di luci fatti apposta per far andare fuori di testa il pubblico, era ancora ben salda addosso a loro.
Nel 1969, quindi, nulla di più adatto dei giovani Pink Floyd per commentare musicalmente la storia d’amore, di droga e di morte sotto il cocente sole mediterraneo proposta dal film. La trama, molto brevemente, introduce il tipico studente idealista ed ingenuo, ben deciso a provare nuove esperienze ed espandere la sua vita, che se ne va in autostop a Parigi e qui si innamora subito del tipo di donna più pericoloso per lui, cioè la classica tossica, carina da morire ma inevitabile, estrema fonte di guai. La raggiunge a Ibiza (luogo ben diverso da quel che diventerà dieci/quindici anni dopo: niente discoteche e fighetti, piuttosto una nutrita presenza di hippies in giro, nonché di spacciatori, feste private e amore libero), vorrebbe redimerla ma è invece lei a spingerlo sempre più a fondo nel proverbiale “tunnel”, a caricargli addosso la stessa scimmia sua, fino al tragico finale.
Attratti dalla possibilità di autoprodursi per la prima volta, e constatando che il film metteva in campo grosso modo le cose giuste sulle droghe (joint… yes, fix absolutely not!), i quattro musicisti passarono cinque notti in bianco a suonare e registrare in studio, consegnando al regista sedici pezzi. Schroeder ne usò ben quindici, ma quasi sempre con una certa (troppa) parsimonia: diversi brani risuonano infatti anche meno di un minuto in colonna sonora, messi in secondo piano dal tipico ed asciutto stile da cinema verité adottato, quasi documentaristico nell’esporre la tragica vicenda dei due protagonisti nella splendida cornice dell’isola spagnola, al tempo ancora lontana dalle eccessive e cafone sovrastrutture consumistiche di oggi.
Per motivi di spazio vinilico, l’album si ferma a tredici canzoni, di cui la metà con tanto di liriche, a riprova che la formazione attinse anche alla parte inedita del ben strutturato repertorio in essere nei concerti, completandolo poi con le migliori idee ed intuizioni strumentali ispirate alla pellicola, materializzatesi in quelle jam session notturne.
L’opera si apre, opportunamente, con la cosa migliore “Cirrus Minor”, vero gioiellino della prima parte di carriera del gruppo. La melodia vocale pigra e discendente, i riverberi sempre più profondi, la lunga e psicotica coda tastieristica di Richard Wright, con il placido e caldo Hammond a dispiegare tappeti di accordi e lo spettrale e tremolante Farfisa ad intersecarvi autentici effetti di straniamento sempre più forti, sono il perfetto vestito musicale a quella fase cruciale del film in cui il protagonista si fa il primo buco, sprofondando nella prima fase di rilassamento e benessere, controbilanciata poi dalle successive sensazioni di perdizione e incubo, quando gli effetti della droga si disperdono. Il bassista e compositore Roger Waters attinge inoltre alla ricca nastroteca di effetti sonori degli studi di Abbey Road, aggiungendo al brano versi di uccelli che anticipano decisamente quella “Grantchester Meadows”, suo evocativo capolavoro nel seguente “Ummagumma”.
The Nile Song sorprende ancora ed in maniera diversa, essendo la cosa di gran lunga più heavy dell’intera carriera Floydiana. Narrano le biografie che il buon Gilmour avesse deciso di affrontare quest’impegno di sonorizzazione di un film sulle droghe imbottendosi per bene di alcolici e cannabis, e la sua esibizione in quest’occasione può essere presa come prova lampante: il chitarrista picchia duro col suo strumento ed urla nel microfono con quanto fiato ha in gola, in uno stile sguaiato e disordinato che resterà episodio estremo nella sua carriera. La canzone appare nel film poco dopo l’inizio, quando il protagonista arriva con un amico alla festa privata parigina dove farà la conoscenza della sua bella.
Crying Song è un siparietto acustico, con begli accordi in diminuita sulla chitarra ed una melodia vocale dall’ampia escursione, abbellita da delicati interventi di Wright al vibrafono e poi da un assolo slide di Gilmour. La scena del film dove si può sentirne un estratto è quella in cui il protagonista, rientrato a casa dopo aver lavorato come barista e spacciatore nell’albergo del pusher dell’isola, non trova lei e si fa prendere da neri pensieri.
Up The Khyber (è questo un impervio valico dell’Afghanistan… in gergo londinese la frase pare stia per “su per il culo”, altro esempio della vena goliardica che attraversò i Floyd in questa fase di libera e ben remunerata creatività), è il primo strumentale dell’album. In pratica è una jam session jazz fra Wright ed il batterista Nick Mason: quest’ultimo suona uno dei suoi caratteristici pattern ostinati, sopra il quale il suo tastierista sfoga al pianoforte la sua passione per lo stile di Thelonius Monk, eseguendo accordi violenti e dissonanti ed aggiungendo per sopramercato una partitura d’organo autenticamente psicotica, adeguato commento sonoro alla scena del film in cui il ragazzo scopre che lei ha ripreso a farsi di eroina e quindi a frequentare il pusher ed i due ne discutono animatamente.
Green Is The Colour, come più o meno tutti gli altri episodi cantati, è composta da Waters ma interpretata da Gilmour (forse il bassista ebbe problemi alla voce al momento delle registrazioni, chissà…): episodio piuttosto sfocato, col chitarrista che sfoggia un falsetto debole ed impreciso e l’allora moglie di Mason, Linda, che aggiunge dilettanteschi svolazzi al flauto. Nell’occasione, perciò, il poco tempo a disposizione e la relativa esperienza del quartetto nella produzione pagano pegno. Nel film il brano, molto dolce e sognante, è impiegato per descrivere il momento di massimo idillio fra i due giovani che, fuggiti dall’altra parte dell’isola in una casa isolata, lontani dal pusher (a cui lei ha rubato dell’ero), vivono la loro storia d’amore, di libertà, di sesso e di buona droga leggera (lui crede).
Cymbaline” è uno dei vertici dell’album, canzone ben strutturata e con un’ottima melodia stavolta ben cantata da Gilmour, del resto era già da tempo nella scaletta dei concerti del gruppo, costituendone anzi uno dei punti nevralgici, con una lunga porzione strumentale nella quale Wright si ingegnava a scoperchiare ben bene i parecchi cervelli acidi presenti fra il pubblico, attraverso un lungo intervento psichedelico ed orientaleggiante all’organo, aiutato da sensazionali effetti quadrifonici: una vera vacanza lisergica per i fricchettoni del tempo. Su disco si perde molto della forza live della canzone, con solo un saggio del lungo assolo di Wright. Nella pellicola, “Cymbaline” commenta (attraverso il classico escamotage di lei che mette su un disco nello stereo e parte così la musica dei Pink Floyd) il primo incontro d’amore dei protagonisti, ancora a Parigi e nella camera d’albergo di lei.
Party Sequence” è il secondo strumentale, costituito da semplici bongos e flauti, che si incontra nell’album. La scena del film è quella di una festa fricchettona di Ibiza alla quale si recano i due protagonisti, piena di variopinta gente, un gruppo di percussionisti che suona e tutti gli altri a fumare, bere, impasticcarsi, chiacchierare e pomiciare. Tutti e quattro i Floyd si divertirono in studio a menar le mani sulle percussioni, assistiti dalla solita Linda Mason al flauto.
Main Theme” è l’ipnotica e conturbante Ouverture/chiusura del film, messa però ad aprire solamente la seconda facciata dell’originario LP. Commenta una suggestiva e dardeggiante immagine del sole oscurato da un’eclisse, evidente prova che le concettualità di Waters che porteranno a quella “Dark Side Of The Moon” di quattro anni dopo hanno radici lontane. E’ resa con un grande sconquasso iniziale e finale di gong, il suono dei quali si placa per far affiorare prima un mormorio d’organo e poi un ritmo ed una melodia sincopati.
Ibiza Bar” è una variante, quasi una clonazione di “The Nile Song”: stesso impianto risolutamente hard rock, quasi gli stessi accordi, ma la prestazione di Gilmour è più sfocata, meno genuinamente fuori di testa. E’ la prima canzone che si sente nel film, a parte il “Main Theme” d’apertura, ed effettivamente accompagna il protagonista all’interno di un bar (di Parigi, però) a giocare a carte, perdere e infine stringere amicizia con un tipo losco che, portandolo poi a quella festa, gli consentirà di avere il fatale incontro con la sua bella e impossibile.
In More Blues Gilmour sfodera il suo passato ancora recente di chitarrista rockblues, prestato (ancora con qualche remora, ma l’adattamento procederà come noto alla grandissima!) alla musica notevolmente più sperimentale ed esoterica dei Pink Floyd: qualche semplice svisata in libertà, su una base ritmica che si ferma e riparte, ad assecondare le sensazioni di insoddisfazione, precarietà e dubbio descritte dalla corrispondente scena del film, in cui il protagonista è costretto a fare il barista e il piccolo spacciatore per il pusher dell’isola, a risarcimento del furto di eroina perpetrato dalla sua donna.
Quicksilver” è il brano più lungo dell’opera, un robusto e articolato momento di musica strumentale concreta, che vede il tastierista Wright in primissimo piano. Va a sostenere musicalmente la fase idillica, ma subdolamente minata dalle droghe pesanti, dei due protagonisti, alle prese con narghilè, LSD, nudismo, crisi d’astinenza e normale vita di coppia nel loro rifugio isolato di fronte alla scogliera.
Di nuovo un David Gilmour bello stonato, alla ricerca come già detto di sintonia con la sceneggiatura di Schroeder, in “A Spanish Piece”, che accompagna nella prima parte del film l’arrivo del protagonista sull’isola spagnola e la ricerca di lei per tutto il paese, fino al suo ritrovamento, ahilui, a casa del pusher. Il chitarrista crea una professionale situazione di flamenco con due chitarre acustiche, poi però sbraga di brutto riempiendo una traccia di registrazione con scemenze qualsiasi, biascicate in uno spagnolo ridicolo! Il regista pensò bene di rimuovere questa parte “rap” nella colonna sonora, lasciando le chitarre sole.
Dramatic Theme chiude l’album, descrivendo puntualmente uno degli accadimenti vicini all’epilogo della pellicola, nel quale esplode la gelosia del protagonista, alle prese con l’evidente, doloroso legame di dipendenza fra la sua ragazza ed il pusher e con la vacuità dei suoi tentativi di cambiare le cose. Gilmour amplifica bravamente la tensione della scena con il suo tocco drammatico alla slide guitar.
Quest’album, malgrado i suoi alti e bassi e pur essendo una colonna sonora, è inserito con piena dignità nel percorso musicale Floydiano, costituendo un’importante tappa di quella faticosa, ma trionfale ripartenza che porterà il gruppo dalla splendida ed ancora circoscritta fase psichedelica Barrettiana, inopinatamente e forzatamente conclusasi già al secondo disco, alla nuova formula progressive di planetario riscontro, che verrà raggiunta compiutamente solo al sesto disco, l’ottimo “Meddle” del 1971.

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